Wednesday, 22 April 2009
Il ritratto di Paul Gauguin a Vincent Van Gogh, la chiave della tragedia
Come tutte le persone abituate alla solitudine, il parlare di Vincent si trasformava in verbosità, il piacere di esprimersi non sopportava l’essere contraddetto.
Più il contrasto di idee si acuiva e più il parlare nevrotico veniva in superficie e
si accentuava addirittura se dall’altra parte sopraggiungeva il silenzio. Ciò che per quelle nove settimane rese possibile il rapporto fu che il più giovane Van Gogh riconosceva al più anziano, un magistero superiore, di vita e di arte, e quanto a questi, l’essersi accorto da subito della enorme grandezza del suo coinquilino, faceva sì che molte punte polemiche venissero smussate, molti giudizi "tranchant" venissero lasciati cadere.
In un ritratto di Van Gogh fatto da Gauguin c’è la chiave per capire la catastrofe che si andava preparando. Si intitola “Van Gogh che dipinge girasoli ad Arles”:
“Forse non c’è molta somiglianza" disse l’autore nel regalarlo a Theo, che era anche il suo mercante d’arte, “ma credo ci sia qualcosa del suo carattere interiore”.
“Ero davvero io, molto stanco e carico di elettricità com’ero allora” commentò il diretto interessato in una lettera e poi, stando alle memorie di Gauguin, aggiunse: “Sono io, ma sono io dopo che sono diventato matto”.
Come tutti quelli che soffrono di depressione maniacale o disturbo bipolare, Van Gogh era più o meno coscientemente consapevole del suo stato, esaltazione e depressione si alternavano e il lavoro, così come il bere, erano una sorta di cura della prima fatta tuttavia della malattia che la estrinsecava: curare l’eccesso con l’eccesso, insomma... Il rendersene conto allontanava lo spettro della follia, ma non lo eliminava. Van Gogh sapeva che prima o poi ci sarebbe scivolato dentro senza accorgersene.
Van Gogh sapeva che prima o poi Gauguin se ne sarebbe andato, e questo lo atterriva: significava tornare solo, significava il fallimento della sua sfida artistica e il dover ammettere che non c’era nessuno che pensasse con lui e per lui, che gli fosse di
conforto, di stimolo e di protezione. E però questa paura era anche un desiderio, il voler restare solo, il dover restare solo, consapevole della propria unicità, del proprio disperato valore.
“Fondamentalmente Gauguin e io ci capiamo, e se siamo un po’ matti, che importanza ha” scriverà al fratello dopo che l’epilogo era giunto e lui si era autopunito mutilandosi.
Su questo gesto, il taglio di un orecchio, sono scorsi fiumi di inchiostro. In soggetti bipolari come Van Gogh, l’associazione fra suggestioni e temi i più disparati era una norma, e ciò che a una mente normale appare incongruo in un soggetto deviato risponde a una logica del tutto coerente.
Nella foto: “Van Gogh che dipinge girasoli ad Arles” di Paul Gauguin
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